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Sans papiers sì, senza idee no

by Redazione

L’Europa francofona ha da sempre un discutibile rapporto con le questioni migratorie. Così con l’emigrazione intraeuropea e italiana in particolare del secolo scorso, così da circa un trentennio in qua con quella globalizzata.
Per anni tanto governi filo – gollisti, tanto quelli socialisti hanno impartito all’Europa non richieste lezioni su come il fenomeno degli spostamenti umani dovesse essere governato, dimenticando o fingendo di dimenticare, che l’immigrazione verso la Francia e più in generale verso i Paesi di lingua e tradizione francese, era una migrazione omogenea, tutta proveniente dal corno d’Africa, dalle ex colonie, in certo modo tranquillizzante. Lo schema era semplice tutto sommato: fatevi francesi e sarete francesi!
Per di più, tralasciando l’immigrazione europea, quella della seconda metà del novecento, trovava accoglienza in un àlveo ideologico molto forte, aggressivo, autoreferenziale.
La sinistra antagonista francese e francofona di quel periodo, povera di voti e carica di spocchia, ha accarezzato a lungo il sogno di sostituire la classe operaia resa più inafferrabile dai primi processi di globalizzazione e fastidiosa per la presenza degli operai medesimi, con il sangue nuovo della immigrazione. L’invenzione di modelli sociali organizzati, nuove formule di rappresentanza studiate in laboratorio, persino termini inèditi e suggestivi come “sans papiers”, furono il contributo generoso che le èlite diedero per la creazione di una nuova classe subalterna, competitiva e antagonista, sprezzante e fiera da proiettare verso il sol dell’avvenire. Un sole che la cultura democratica francese avrebbe creato e regalato agli immigrati, come una anziana e benestante signora è solita fare, donando vestiti smessi alla governante.
L’assoluta vetustà di questa visione era visibile a tutti fin dal suo profilarsi, quanto male essa abbia fatto al raggiungimento di una politica europea per gli spostamenti umani, molti lo scoprono ora.
Intendiamoci, la Francia, il Belgio e la Svizzera francese non sono gli unici responsabili di questa assurda sottovalutazione del fenomeno, ma non possono in alcun caso sentirsi assolti.
Ce n’è una prova ulteriore in questi giorni. A Bruxelles, qualche centinaio di clandestini ha occupato pacificamente Chiese e Moschee, con il consenso di preti e imam. Ciò che chiedono è intuibile: nuove politiche di accoglienza, idonee leggi in tema di asilo politico e così via. Danno credibilità a questa loro iniziativa, sperimentando modelli di convivenza civile, pacifica e rispettosa della diversità.
Le prime valutazioni della stampa belga sembrano inadeguate alla lettura del fenomeno; esse oscillano, a destra, tra l’ insofferenza e l’aggressività fascistoide classica, a sinistra vanno dalla bonarietà cristiana, alla contemplazione estatica di chi ci vede la nascita dell’evo nuovo.
Forse manca a queste letture così ortodosse del fenomeno, la perturbante riflessione sul modello di convivenza che dovremmo realizzare e che è ancora tutto da sperimentare. Forse siamo tanto presi tutti dal sostenere che il problema “ è un altro”, che non riusciamo a vedere che c’è un filo rosso, sottile e resistente che lega il malessere delle periferie londinesi, con le banlieue parigine, con via Anelli a Padova dove, qualche giorno fa, è scoppiato un pandemonio in stile notte di S. Valentino, con regolamento di conti fra bande.
Esiste probabilmente una necessità  irrimandabile di studiare, mettere in campo, promuovere e realizzare politiche di coesione sociale, di redistribuzione di opportunità, di modello urbanistico dei quartieri che non è “ altro problema” ma parte – e anche importante – del problema.
Ciò che accade a Bruxelles e altrove, ci dice che quando i fatti sociali sono reali e rilevanti, se non governati tendono a governarsi da soli sperimentando prima e praticando poi, sistemi alternativi di solidarietà, di giustizia, persino di economia. Detto così suona persino bene, ma vedere realizzati tanti modelli sociali per quanti sono le etnie che vivono in un sistema, è proprio quello che ci auguriamo?

Fabrizio Molina

(1 agosto 2006)

 


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