L’IPOTESI SEMINA A TORPIGNATTARA
by Redazione
Posted on Febbraio 6, 2019
Centri diurni, immigrazione, Periferie, Roma, Torpignattara. Semina
L’IPOTESI SEMINA A TORPIGNATTARA
di Velio Macellari e Luigi Zuzzi
Luigi è arrivato a SEMINA in punta dei piedi. Solo l’amicizia con il vecchio compagno di scuola l’aveva convinto a venire in via Policastro, in un quartiere che non è mai stato il suo e che conosceva solo di nome come … un quartiere difficile. L’amicizia con Velio e l’occasione di fare dopo tanti anni di nuovo qualcosa insieme. Non aveva nemmeno ben capito cosa poteva fare. Aveva chiaro soltanto di non esser disposto a “perdere” più di un paio d’ore per non più di una volta a settimana ed al massimo per i tre, quattro mesi che mancavano alla fine dell’anno scolastico. Sì, uno stato d’animo molto lontano dal classico volontario convinto di voler/dover far volontariato.
Velio no, sapeva bene cosa poteva, doveva e voleva fare.
Per Luigi però, sono bastate quelle prime due ore nell’ariosa e bella aula studio e nelle altre due a disposizione di “Nessun Luogo è Lontano” che stava gestendo il progetto SEMINA, per capire che si era prefigurato tutto un altro film. Quelle prime ore del primo giorno passate con quei ragazzini e ragazzine vivacissimi che continuavano a parlare tra di loro una lingua per lui indecifrabile e che a stento avevano la pazienza di ascoltare il suo italiano ed a stento decifrarlo, a stento parlarlo. Lì in punta di piedi non ci si poteva stare! Servivano piedi ben piantati in terra, per esser in grado di scegliere di scappare a gambe levate o rimanere ad osservare non il film prefigurato, bensì quello che si stava svolgendo, ma ancor più decidere di stare a tutto titolo nel cast del film e provare anche a scrivere qualche passo della sceneggiatura. Sì, a spiegarglielo sono stati fin dal primo impatto, proprio quei ragazzini e ragazzine con i loro “problemi di attenzione”. Con la loro apparente mancanza di interesse per materie che erano “costretti” a studiare, lontanissime, in alcuni casi, dalle loro pregresse conoscenze. Con la loro brillantezza che li portava a cercare le più banali scorciatoie per dedicare il minor sforzo possibile ai “compiti” interpretati come qualcosa che “purtroppo” dovevano fare. I loro occhi belli e furbi gli hanno subito fatto capire che il suo compito era sì spiegar loro quel teorema di Geometria o di Algebra o quel passaggio di Storia, Storia di popoli lontani –in tutti i sensi- dal loro, Paesi di cui non conoscevano nulla della loro Geografia, ma… Ma soprattutto il suo compito era quello di provare ad alleggerire quella “pesantezza”. Occhi che dicevano o stai veramente qui …o scappa.
Un paio di passeggiate nel quartiere e si comprende molto di più. Odori di cibo non tuoi. Scritte sui muri, sulle insegne di negozi grandi e piccoli con grafi inintelligibili e raramente tradotti in italiano. Negozi di ogni genere condotti da non italiani, in maggioranza Bangla e Cinesi. Nel bar Gioia, due giovani baristi cinesi ti fanno splendidi ginseng, altrettanto buoni caffè e parlano tra loro italiano: è il loro unico mezzo di comunicazione venendo da zone della Cina molto lontane tra loro e di lingue differenti. Parlano un italiano fluente (importante sorvolare sulle loro impossibili erre) ma per tutti gli altri (bangla, cinesi, peruviani, filippini) l’italiano è quanto mai un oggetto da poter usare senza troppi accorgimenti: articoli superflui, declinazioni inutili…
Se è comprensibile per dei negozianti, non lo è per alunni/studenti. Un problema che a tutt’oggi non è del tutto superato. Ma la realtà è che tutti coloro con cui questi ragazzi si relazionano (ad esclusione dei loro professori e dei pochi compagni di scuola italiani) parlano la loro lingua bangla e possono esser portati a credere di potersi risparmiarsi la fatica di imparare di imparare il nostro italiano.
La gravità della cosa è evidente. Se non facciamo di tutto per superare questo scoglio, diverrà nel tempo certamente motivo per loro di esclusione ed autoesclusione, vera e propria ghettizzazione con risvolti a cui dobbiamo in tutti i modi cercare di non arrivare, altrimenti sarà poi del tutto inutile il nostro intervento; la dimensione della presenza della loro comunità linguistica nel quartiere è tale da accentuare notevolmente questa problematica. Checché se ne dica noi non abbiamo i problemi di immigrazione dei francesi perché il nostro fenomeno d’immigrazione oltre ad esser ben più recente, è diffuso nel territorio nazionale, spesso anche nei borghi dove trovano lavoro molto più facilmente. Non abbiamo ancora le loro banlieue; ma il V Municipio che ha una percentuale di immigrati di circa 15% [1](più del doppio della media romana) ed ancor più Torpignattara dove si stima che la percentuale sia molto più elevata della media municipale, banlieue rischia veramente di diventarla senza un serio intervento di conoscenza e di reale investimento sulla problematica: un suicidio non farlo.
Tutto questo Velio l’aveva chiaro fin dall’inizio: questioni alla base della sua scelta di dare il suo apporto a Semina. Luigi invece lo ha compreso strada facendo, anche grazie alla sfida silenziosa lanciatagli da quei ragazzini. Sfida a cui non ha saputo/voluto sottrarsi.
Lo scorso anno Velio, Luigi e tutti i volontari di Semina pur toccando con mano le problematiche insite nella carenza linguistica (che si traduce più in generale in una forte barriera culturale), alla chiusura dell’anno scolastico sono riusciti a misurare anche dei consistenti miglioramenti.
Pretendere di far prender possesso del nostro italiano non significa comunque che non è un fatto altamente positivo che coltivino la loro lingua (il Bangla è la terza lingua indiana per popolazione parlante[2]), la loro cultura, la loro religione (quasi per tutti in Bangladesh è l’Islam).
Aver sinceramente mostrato rispetto per questo inalienabile diritto (se ad esempio si propone una festicciola lo si fa fuori dal periodo di Ramadam), li ha particolarmente colpiti.
In particolare lo scorso anno si è adottata una prassi: ad ogni ragazza/ragazzo oltre a domandare il loro nome, si chiedeva di scriverlo in lettere latine ed a fianco nella loro scrittura. Guardavano sorpresi, ma poi rivelavano una gran contentezza nel dimostrare di saperlo fare. Una cinesina delle elementari ha fatto di più: dopo aver scandagliato il pensiero del suo interlocutore gli ha chiesto PERCHÉ e davanti alla risposta ci piace imparare cose che non conosciamo, Xinli Wang ha sfoderato un gran sorriso ed ha concesso l’autografo chiarendo che questo ideogramma significa Xinli e questo Wang… come a sottintendere che se devi imparare… devi farlo bene!
Sempre lo scorso anno, un pomeriggio, si è fatto un piccolo esperimento per tastare la possibilità di un loro reale coinvolgimento nel dialogo che andava aperto, un dialogo che magari potesse fare anche da ponte con le loro famiglie. Partendo dall’ipotesi che è la variabile “spazio” quella che può farli sentire estranei e “spaesati”, -sentimento che li spinge a non incuriosirsi di chi siamo “noi”, come pensiamo, come parliamo, perché fuori dalle loro coordinate non trovano punti di sostegno per “affrontare il mondo”- abbiamo portato alcune schede (una cosa semplice prendendo mappe e testi da internet) e partendo dal contesto geografico (in una piccola mappa veniva rappresentato il planisfero dall’Italia al Bangladesh con l’intero continente indiano ed i paesi confinanti, un’altra raffigurava solo il Bangladesh, altre immagini e testi riguardavano Torpignattara). Con alcuni di loro abbiamo “sprecato” mezz’ora prima di dedicarci ai “compiti” e ci siamo addentrati, oltre che nel contesto geografico anche in varie curiosità che la cosa può suscitare e… l’attenzione e l’interesse erano totali. Cosa analoga è accaduta con le schede del quartiere Torpignattara: sì questo palazzo sta vicino a dove abito, no non lo so perché si chiama torpigna… la mamma di un imperatore? e via dicendo. L’obiettivo era capire se l’idea di riappropriarsi della dimensione “spazio”, che è quella che più ha influito nella loro breve vita, poteva suscitare interesse. Abbiamo scoperto tra l’altro che i tre/quattro con cui stavamo parlando erano tutti nati in Bangladesh e non qui come pensavamo. Quando parlavamo della caratteristica geografica più importante del loro paese (la confluenza dei due più grandi fiumi del continente indiano e del fatto che spesso hanno causato grandi danni per le alluvioni, uno di loro ha subito detto che lui abitava proprio lì, nella zona della confluenza, e per un’alluvione (non conosceva, fino a quel momento, questo termine italiano) non ha più nessuna foto di quando era piccolo.
Insomma guidati dalla percezione dei reali bisogni dei ragazzi, che andavamo di giorno in giorno approfondendo, ci siamo trovati ad andare oltre il nostro compito iniziale di mero supporto scolastico, che purtroppo i ragazzi tendevano ad interpretare come semplice aiuto a fare i compiti per casa. Mentre era chiaro a tutti noi volontari che il nostro obiettivo primario fosse piuttosto quello di metterli in grado di fare i compiti da soli. Si trattava sostanzialmente di colmare le loro lacune di preparazione e di aiutarli a superare loro eventuali particolari ostacoli di apprendimento. Non è compito oggettivamente facile, e non è stato facile, tuttavia abbiamo avuto confortanti successi. Ad esempio nella matematica, per la quale non pochi ragazzi, spesso anche senza esperienze dirette, maturano una forte ed ingiustificata convinzione di essere “negati”. “Ma allora è facile!” È stata invece l’esclamazione, il dono grande che ci ha fatto un giorno Jacob, alunno di quinta elementare, al termine di una scomposizione corretta di un numero in fattori. Avevamo appena terminato di insegnargli con quale metodo dovesse studiare la matematica, ed in generale le materie scientifiche, e di guidarlo nello studio di quel frammento di teoria matematica. Ora Jacob è a suo agio con la matematica e raramente ci chiede aiuto.
Nell’anno scolastico in corso SEMINA ha subito un gran mutamento sia negli operatori che nei ragazzi che frequentano: quasi tutti gli iscritti sono piccoli alunni delle elementari.
Bimbi con i quali non è stato possibile, almeno in questa fase, andar oltre nell’idea di approfondire la conoscenza del quartiere dove ora vivono e più in generale della città, del Paese che sta per diventare la loro seconda terra.
È chiaramente un lavoro diverso quello che si è dovuto impostare, altrettanto affascinante quanto può esser l’accompagnare la fioritura delle potenzialità di bambine e bambini che si affacciano alla conoscenza di ciò che li circonda al di là del loro mondo familiare. Un lavoro più difficile per gli operatori che devono aiutarli ad acquisire gli strumenti principali per questa conoscenza. A partire dall’ostacolo della lettura e comprensione di semplici testi nella loro nuova lingua. Ostacolo per loro ben più alto di quanto non lo sia per i loro coetanei di lingua madre italiana ed è per questo che nella scuola che frequentano spesso non riescono a stare al passo ed il nostro sostegno può diventare rilevante. Ce lo conferma la gratitudine che si legge negli occhi delle loro mamme che li accompagnano assiduamente nel nostro centro.
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Il quadro complessivo disegnato in queste poche righe vero e per noi bello, potrebbe essere ritenuto abbastanza soddisfacente e assolutamente appagante per gli operatori volontari. Perché in definitiva si realizzano e si ripetono in ogni giorno di attività, “il dono e il suo contraccambio” con una sincera gratitudine, come solo i ragazzi sanno fare, con un sorriso o un abbraccio; e questo scambio reciproco di doni è riconosciuto essere un elemento chiave per la comunicazione umana, e di conseguenza uno dei più importanti leganti sociali, fondamentale per costruire una morale condivisa, che è condizione necessaria per formare una vera comunità.
Ma se allarghiamo lo sguardo oltre la cornice di questo quadro, al complesso delle problematiche del quartiere di Torpignattara, ci rendiamo immediatamente conto che questa nostra attività, pur importante per i singoli ragazzi che contattiamo e per le loro famiglie, è una piccola goccia che rischia di essere sterile di ricadute per lenire i disagi sociali che si manifestano ad un osservatore attento semplicemente passeggiando per le strade del quartiere. I diversi gruppi etnici immigrati tendono a rinchiudersi nel loro gruppo, gli italiani di nascita manifestano scarsa propensione ad interagire con loro, gli scambi interetnici sono limitati sostanzialmente a quelli di natura commerciale. Se si percorre via dell’Acqua bullicante una sera d’estate si vedono in giro solo bangla e qualche cinese, degli italiani non v’è quasi traccia. Lo stato sociale di questi ultimi è per le persone attente oggetto di grande preoccupazione, non solo per questo loro ritirarsi in casa la sera, ma soprattutto per il loro sensibile e progressivo degrado culturale verificatosi nelle ultime decadi, come ci ha segnalato un parroco di una delle chiese del quartiere: molti giovani non studiano e non sono più stimolati allo studio dalle famiglie, che evidentemente ritengono poco importante una buona preparazione scolastica dei figli. Un riscontro indiretto di ciò l’abbiamo avuto anche noi: solo qualche ragazzo italiano si è affacciato sporadicamente al nostro centro, per eclissarsi dopo poco tempo.
Eppure siamo consapevoli di essere sulla strada giusta, che il volontariato abbia ampie e riconosciute potenzialità per la crescita e l’integrazione socioculturale in territori abitati da diversi gruppi etnici. A motivo chiave, come sopra detto, del “dono”, insito nella natura dell’azione del volontariato.
È degno di nota al riguardo il fatto che fin dal 1970 le Nazioni Unite hanno ritenuto di contribuire alla pace ed allo sviluppo di aree, con serie difficoltà di integrazione sociale, stabilendo il programma UNV (United Nations Volunteers), un’organizzazione attiva in tutto il mondo e basata sul volontariato. Si è verificato dopo tanti progetti di successo come il volontariato avvantaggi sia la società in generale che il singolo volontario rafforzando la fiducia, la solidarietà e la reciprocità tra i cittadini e creando opportunità di partecipazione. Lo UNV si è occupato di aree difficili di sottosviluppo, reduci da gravi conflitti con forte componente etnica, ma lo stesso approccio è stato seguito da vari governi che hanno supportato e finanziato il volontariato e la relativa ricerca sociologica per affrontare il declino della coesione sociale e incoraggiare la partecipazione civile tra i giovani. E’ del tutto evidente quindi come il volontariato sia uno strumento efficace per affrontare i problemi di coesione e di inclusione sociale dei quartieri romani come Torpignattara.
Noi siamo in definitiva una piccolissima organizzazione e perfettamente consapevoli che con le nostre sole forze non possiamo affrontare detti problemi nella dimensione di un grande quartiere di quasi 250 mila abitanti, ma sappiamo che possiamo contribuire significativamente se non siamo isolati nelle nostre azioni ma aperti alla collaborazione con altre organizzazioni analoghe o diversamente complementari, sia private che pubbliche, e se riusciamo ad essere attrattivi per potenziali volontari abitanti nello stesso quartiere nel quale operiamo. Ma sappiamo anche che soluzioni soddisfacenti di detti problemi si possono perseguire efficacemente solo se le Istituzioni in generale, le autorità pubbliche locali in particolare, che in varie occasioni si sono dimostrate sensibili alle potenzialità del volontariato, svolgessero un’azione diretta di indirizzo, di promozione, di valorizzazione e di integrazione e coordinamento delle diverse organizzazioni attive nel territorio: una esperienza positiva l’abbiamo avuta lo scorso anno con la stesura, insieme a molte associazioni del quartiere e su invito del Municipio, di proposte per il Piano Sociale del Municipio medesimo, ma le ricadute non le vediamo ancora.
RIMANE quindi alla BASE DEL PERCORSO FUTURO di SEMINA il NON ISOLAMENTO ed un sempre maggiore coinvolgimento con il quartiere.
In questo ultimo anno un primo passo positivo si è fatto con il reclutamento di insegnanti volontari abitanti nel quartiere od almeno in quelli limitrofi, cosa non secondaria bensì un aspetto fondamentale per SEMINA: ora una di noi è del quartiere e una seconda di quello accanto. Un risultato prezioso che contiamo di incrementare ancor più nel prossimo futuro.
Ci siamo mossi anche per stabilire collaborazioni con altre associazioni che potessero aiutarci nel perseguire i nostri obiettivi.
L’associazione Harambee Africa international[3] ci consentirà di aggiungere al supporto scolastico anche mezzi ludici e la pratica di attività artistiche.
Inoltre è stato definito un protocollo di intesa con l’Associazione Centro ELIS[4]: SEMINA potrà indirizzare all’ELIS, dopo la scuola dell’obbligo, alcuni ragazzi interessati ad un lavoro tecnico qualificato, per l’acquisizione di specifica formazione di competenze: formazione che può aprire ad importanti sbocchi lavorativi.
[1] Dati 2013, fonte Comune di Roma: http://www.urbanistica.comune.roma.it/images/partecipazione/confurba/mun05/mun5-demografia.pdf
[2] Quei ragazzini hanno aiutato anche a superare un eurocentrismo antistorico costringendo a dare un’occhiata a Paesi di cui da queste parti sembra normale snobbarne l’esistenza:
– Bangladesh, 168 Mln di abitanti; una popolazione più di due volte e mezza quella italiana in una superficie meno della metà di quella dell’Italia anche includendo circa 10 mila km² di acque. Una popolazione giovanissima: la fascia di età tra 0-25 anni è circa il 60% della popolazione totale.
– Filippine un arcipelago di 7.107 isole, una superficie totale, incluse le acque interne, di circa 300.000 km2 (qualche km2 in meno di quella italiana), una popolazione di circa 98 Mln di abitanti (una volta e mezza quella italiana), con una crescita demografica tra le più alte di tutto il Sud-est asiatico (24,48 nati per 1.000 persone) e l’area metropolitana della capitale, Manila, di 11 Mln di abitanti; 171 le lingue ancora parlate.
– Cina … beh no, malgrado un insopportabile eurocentrismo, nessuno mai si è permesso di snobbare la Cina!
[3]http://www.harambee-africa.org/
[4] http://www.elis.org/
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