Immigrazione: il coraggio di ricominciare da zero
by Redazione
Posted on Febbraio 2, 2010
La sensazione diffusa che pare di riscontrare tra coloro che si occupano di immigrazione sembra essere, almeno in Italia, di forte scoramento. Una lucida analisi di puro buon senso viene proposta in un articolo de Il Sole 24 ore di oggi, firmato da Guido Bolaffi, che giudica con sacrosanta severità gli atteggiamenti politici prevalenti della sinistra e della destra: retorico per la prima, ipocrita per la seconda. Bolaffi, che nel suo articolo si intrattiene moltissimo sulla paranoide gestione che si fa in Italia di sanatorie e quote, trova però anche il tempo di accennare verso la conclusione del suo articolo alla madre di tutti i problemi, il diritto di cittadinanza. Diritto negato, irriso, sventolato in faccia al popolo per lucrare il voto di un elettore che non chiede che si parli al suo cervello perché da almeno quindici anni è convinto che serva solo la pancia per vivere. E’ questo, io credo, che fa dire a Bolaffi che l’elemento che impedisce una governance dell’immigrazione ragionevole prima ancora che democratica e moderna, non è politico ma culturale.
E da che mondo è mondo è più facile cambiare la politica che trasformare la cultura. Soprattutto quando l’egemonia è stata assunta dalla non – cultura. Il punto è proprio questo: la mancanza di attrezzatura culturale determina l’impossibilità di spiegare e far intendere che essere in favore di una nuova cittadinanza non significa parteggiare per una immigrazione sfrenata e senza regole. Piuttosto il contrario.
E’ difficilissimo spiegare che chiedere che uno straniero che risieda da cinque anni in Italia possa votare per le proprie amministrazioni, non è un favore che si fa agli immigrati e tantomeno ai clandestini, ma all’Italia e agli italiani. Dove si trovano le parole per dire ai nostri connazionali che più un individuo dispone di carta di identità, di codice fiscale, di carta sanitaria, di cartella esattoriale, di partita iva, di scheda elettorale, insomma più emergere e ha da perdere, più cresce e prospera il Paese? Allo stato attuale, la risposta è semplice e sconsolante: non si fa, non ci sono parole che possano giungere all’orecchio di chi non voglia sentire. E allora? Allora mi permetto di dire soprattutto a me stesso, ma anche ai colleghi della Caritas, delle Acli, dell’Arci, dei sindacati, delle organizzazioni imprenditoriali, a qualche esponente della sinistra se c’è ancora e della destra liberale se ancora esiste, che non abbiamo alcuna possibilità di vincere, in tempi brevi, la battaglia dell’intelligenza e della cultura.
Ma se vogliamo giocarcela almeno sui tempi lunghi, dobbiamo subito riprendere quello slancio vitale e pieno di incomprensibile ottimismo che ci spinga in ogni scuola, in ogni dopolavoro, in ogni centro anziani, in ogni fabbrica, a spiegare le nostre ragioni. Sapendo che la buona politica è figlia della buona educazione e che la buona educazione è noia, fatica e duro lavoro. Un duro, durissimo lavoro, ma qualcuno deve pur farlo. Se non faremo questo saremo più colpevoli di quanti hanno, con meticolosa perizia, svuotato le teste e le coscienze. E non sarà l’umanitarismo solidale a salvarci. Se non faremo questo, dovremo renderne conto. Quantomeno davanti alla Storia.
Fabrizio Molina
2 febbraio 2010
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