Immigrazione, come cambia ai tempi del Covid
di Giuseppe Casucci
Come premessa, voglio fare una riflessione a parte che riguarda la pandemia di Covid 19. Pandemia che sta danneggiando le economie di tutto il mondo, Europa compresa; che sta producendo pesanti perdite di posti di lavoro e un peggioramento delle condizioni di vita nella popolazione europea. E questo non può non avere conseguenze sull’opinione pubblica riguardo alle politiche migratorie. Non dimentichiamo che i migranti sono opportunisticamente considerati una risorsa solo quando funzionali alle economie, quella sommersa compresa.
Non siamo nel 2019
Questa premessa per dire che non siamo nella stessa società di un anno fa e che lo Tsunami che investe le nostre vite cambia un bel po’ di cose. Quando ci troviamo di fronte a questioni così importanti, dunque, dobbiamo considerare il nostro giudizio come “in progress”, in qualche modo condizionato dai cambiamenti in atto nelle economie e nelle società.
Gli effetti economici e sociali della pandemia non sono stati previsti da nessuno. La Spagnola e l’Asiatica sono lontane nel tempo e noi facciamo purtroppo poca attenzione agli insegnamenti che pure ci vengono dalla storia. Come in passato, però epidemie di questa portata possono destabilizzare economie e società, cambiando modelli di sviluppo, costumi ed organizzazione della società stessa. Attualmente le valutazioni dell’impatto del Covid, ancora provvisorie, sono della probabile perdita – solo per l’Italia – di almeno un milione di posti di lavoro; la pandemia ci costringe a cambiare il modo di lavorare e di rapportarci agli altri (smart working) e soprattutto non colpisce tutti allo stesso modo. Ad esempio, i settori più investiti dalla crisi prodotta dalla pandemia (commercio, turismo, costruzioni, trasporto privato, settore domestico e di cura alla persona) sono quelli in cui lo smart working è praticamente impossibile, dove sono molto presenti contratti precari o condizioni di lavoro irregolare; dove quindi c’è una maggiore perdita di lavoro, condizioni sanitarie a rischio, ma anche minor accesso agli ammortizzatori sociali. Senza contare le condizioni cui debbono sottostare chi lavora in nero.
Questo per dire anche che l’impatto del Covid 19 sul lavoro non è uguale per tutti.
Italia Paese di frontiera
Abbiamo anche il problema delle persone che continuano ad arrivare, via mare o via rotta balcanica; arrivano malgrado la pandemia e necessitano di cure ed accoglienza vera. Non sono molti, rispetto gli arrivi di due o tre anni fa, ma considerando il blocco della mobilità tra Paesi (o quasi) per tutti, costituiscono un tema che a che fare con la salute pubblica e dunque va trattato con prudenza. I numeri limitati dovrebbero permettere una facile gestione, ma non sempre è così anche per l’insofferenza di molti nuovi arrivati ad accettare l’isolamento sanitario, specie quando la gente viene mandata d’imperio a passarlo nelle navi quarantena.
La migrazione è da sempre un problema difficile da gestire per l’Europa, data anche la mancanza di un quadro giuridico comune al riguardo. Negli ultimi anni sono aumentati i flussi migratori nel mondo, in particolare dall’Africa e dall’Asia. Attualmente, secondo i dati dell’UNHCR, ci sono 272 milioni di migranti nel mondo, tra cui 80 milioni di sfollati e richiedenti protezione. La migrazione economica è forse la maggior componente dei motivi di migrazione, specie da Africa ed Asia. Ma all’importanza di questo fenomeno non corrisponde una legislazione adeguata, almeno da parte della UE. Mentre sull’asilo e la protezione una legislazione quadro comunitaria esiste (sia pur con gravi limiti iconicamente rappresentati dal regolamento di Dublino), sulla migrazione economica non esiste una legal framework, in quanto ogni MS è sovrano sulle scelte da fare in quanto a canali d’ingresso e molte delle norme che riguardano accoglienza ed integrazione dei migranti.
Una politica di contenimento sicuritario dei flussi migratori non funziona e non può funzionare. Ne sono una prova i cosiddetti decreti Salvini che sono serviti a peggiorare le condizioni di migranti e richiedenti asilo, anche in forma crudele, ma non sono serviti a nulla rispetto alla pressione migratoria. Sono serviti a creare lavoro nero, a beneficio degli sfruttatori e dei caporali. Oggi il governo ha corretto in buona parte questi decreti e ne ha attenuato molti effetti, anche se si sente sempre di più la necessità e l’urgenza di mettere mano all’intero impianto di normative concernenti l’immigrazione.
La crescita demografica nei Paesi del terzo mondo è in aumento: solo in Africa questo secolo la popolazione è destinata a raddoppiare, ed in parte questo vale anche per l’Asia. Anche i cambiamenti climatici sono destinati a diventare cause preponderanti della pressione migratoria. Pensare di risolvere il problema alzando barriere – come vorrebbero alcuni – è fortemente velleitario. Non ci sarà modo di contenere la pressione migratoria economica, a meno di riuscire ad intervenire sullo sviluppo di Africa ed Asia, migliorando le condizioni di vita e di lavoro di quelle popolazioni e creando le condizioni per il diritto a non emigrare. Ed in questo senso il ruolo del dialogo sociale può essere determinante, sia nell’influenzare i governi ad un investimento adeguato nei paesi in via di sviluppo, sia nel richiedere la valorizzazione dei titoli e delle competenze di tutti i lavoratori, anche dei migranti economici e di formarli ai cambiamenti nel mercato del lavoro indotti dalla stessa crisi pandemica.
L’assenza di canali legali d’ingresso per lavoro favorisce il trafficking
Attualmente, comunque, manca una vera governance dei flussi migratori parte dell’Europa. L’assenza o quasi di canali legali d’ingresso per motivi di lavoro obbliga i migranti alla migrazione illegale, a mettersi nelle mani dei trafficanti e spesso a rischiare la vita durante il viaggio per arrivare in Europa. Una volta arrivati, la loro condizione di sans papier li condanna al lavoro nero, allo sfruttamento ed all’assenza di diritti. E ad essere trattati come criminali a causa del loro status irregolare. Attualmente si calcola che negli Stati dell’Unione ci siano forse cinque milioni di stranieri irregolari, impiegati nei lavori più umili, sottopagati e costretti a condizioni di lavoro e di vita inaccettabili per una società civile. In Italia la quota degli stranieri irregolari è stata valutata in 700 mila persone, duecentomila delle quali ha potuto regolarizzarsi grazie ad una procedura di emersione avviata a giugno dal governo italiano che ha permesso la regolarizzazione di lavoratori irregolari nei settori dell’agricoltura, della pesca e del settore domestico e dei servizi alla persona. Una misura certamente positiva, ma parziale che soffre dell’urgenza della riapertura di canali d’ingresso regolari per motivi di lavoro (bloccati dal 2010, tranne il lavoro stagionale).
Un’altra conseguenza dell’assenza di canali d’ingresso legali in Italia ed Europa è l’espediente di fatto obbligato dei migranti a fare domanda di asilo o protezione umanitaria. È ben noto che la maggioranza degli stranieri che arrivano irregolarmente, sia motivata da ragioni economiche, alla ricerca di una vita migliore per loro e le loro famiglie. Non potendo avere un permesso di soggiorno per motivi di lavoro, la richiesta di protezione internazionale o asilo dà loro alcuni mesi di tempo per avere un permesso temporaneo che gli permetta di lavorare.
In Europa serve un cambio di paradigma
In generale però la politica della UE verso l’immigrazione economica irregolare è stata di carattere securitario, limitando i soccorsi in mare ed ostacolando le navi delle ONG impegnate in attività di search&rescue, teorizzando gli strumenti dei rimpatri contro l’immigrazione irregolare, facilitando gli accordi con i Paesi di origine e di transito dei migranti per ostacolarne il viaggio verso l’Europa.
Ma è una politica miope, a parere del sindacato europeo: da una parte il flusso dei rimpatri è in genere fortemente inferiore agli arrivi; inoltre, gli accordi con i Paesi del Nord Africa (o con la Turchia) per ostacolare il flusso degli arrivi, produce grandi sofferenze su migliaia di esseri umani e spesso la violazione dei diritti fondamentali. Un atteggiamento che rischia di mettere sullo stesso piano migranti economici e richiedenti protezione, uniti da un generale rifiuto della solidarietà da parte di molti Stati Membri dell’Unione. Il fallimento dei ricollocamenti dei rifugiati, arrivati in Grecia o Italia, ad altri paesi dell’Unione; l’impossibilità di riformare il regolamento di Dublino ne sono prove lampanti.
Per quanto riguarda l’azione di tutela svolta dal sindacato, va detto che essa è stata molto efficace negli ultimi dieci anni, ma che oggi rischia di indebolirsi con la crescita del lavoro nero e precario e l’impossibilità conseguente di difendere i diritti contrattuali dei lavoratori di origine etnica. Una difficoltà accresciuta dalla quasi assenza di interlocuzione con ministeri chiave, quali il Ministero dell’Interno e del Lavoro. È dunque necessario cambiare l’approccio al problema, aprendo canali legali d’ingresso per lavoro. Ma è anche necessario che il sindacato lavori di più sul fronte dell’emersione dal lavoro irregolare e la tutela delle persone fortemente sfruttate.
In materia migratoria c’è bisogno di un cambio di approccio generale; qualcuno lo ha definito un cambio di paradigma
In sintesi
- va trovata una soluzione per far emergere i migranti da uno status e condizione lavorativa irregolare;
- vanno moltiplicate le esperienze di corridoi umanitari per i rifugiati e richiedenti protezione;
- vanno aperti canali legali d’ingresso per motivi di lavoro, sulla base delle esigenze effettive del mercato dell’occupazione, nel rispetto dei diritti civili e contrattuali;
- si deve investire maggiormente in integrazione, anche per evitare situazioni di affollamento abitativo, assolutamente rischiose in fase di pandemia;
- nel caso dei rimpatri, il ritorno forzato dev’essere l’ultima chance – come del resto prevedono le direttive europee; si deve optare preferibilmente per il ritorno volontario assistito.
- Infine: si deve andare verso un quadro legale europeo anche in materia di immigrazione economica, per dare alla UE maggiori strumenti per gestire i flussi migratori su di un piano sovranazionale.
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