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Immigrazione: c’è modo e modo di informare

by Redazione

“Tutte le bufale sugli immigrati in Italia”: è il titolo provocatorio ma corretto, dell’articolo di Adriano Biondi pubblicato  il 19 febbraio 2014 sul sito di informazione-partecipata http://www.fanpage.it. Dall’emergenza degli sbarchi ai costi per lo Stato, passando per le case popolari e il reddito minimo garantito: ciò che bisogna sapere per non cadere nei luoghi comuni, ragionare con la propria testa e non farsi prendere dalle facili emozioni

La decisione dei cittadini svizzeri di sottoscrivere un referendum che impegna il Governo a rivedere le norme in materia di immigrazione ha finito inevitabilmente per il riaprire il dibattito anche in Italia. Tra emergenze vere e presunte, tra contraddizioni e vere e proprie sciocchezze, tra dati e impressioni, in effetti quello sull’immigrazione è un discorso complesso, affrontato spesso in maniera molto confusa e superficiale, ma soprattutto strumentalizzato dalla quasi totalità delle forze politiche. Che, sostanzialmente, avallano messaggi contraddittori, notizie prive di fondamento e vere e proprie bufale. Vediamone alcune, senza alcuna pretesa di esaustività, dal momento che sul tema le parole al vento sono praticamente infinite.

L’invasione dei clandestini – La percezione con la quale si assiste allo sbarco dei clandestini a Lampedusa e non solo è spesso, anzi sempre, influenzata dalle contingenze politiche ed economiche. Negli ultimi mesi la rappresentazione è stata quella dell’assedio (con una parentesi dopo la tragedia di Lampedusa, che ha “convinto” a mettere da parte un certo tipo di propaganda, per ragioni di decenza), anche se completamente smentita dai numeri. I dati sono quelli che il Governo pubblica nel rapporto di Ferragosto e testimoniano come i flussi migratori sostanzialmente seguano dinamiche proprie e, soprattutto, come non vi sia alcuna emergenza (per citare Alfano nel 2012, “flussi assolutamente gestibili”). Infatti, ecco il numero di migranti nei diversi intervalli di tempo:

• 2008 – 2009 = 29.076

• 2009 – 2010 = 3.499

• 2010 – 2011 = 48.032

• 2011 – 2012 = 17.365

• 2012 – 2013 = 24.277

L’esercito dei clandestini, la maggioranza degli irregolari – Le cifre di cui sopra andrebbero poi confrontate con il “complesso” dei dati sull’immigrazione in Italia, fosse solo per avere un’idea della fallacia logica dell’associazione fra “invasione” e “immigrazione”. Gli stranieri regolarmente residenti nel Belpaese sono infatti 3.863.264, i permessi di lavoro rilasciati sono stati 107.537 per lavoro autonomo e 752.715 per lavoro subordinato, mentre i ricongiungimenti sono stati 478.508.

 

 

L’esercito dei rifugiati – Anche in questo caso è smentita dai dati la pretesa “proporzione biblica” del numero di migranti che ottiene dallo Stato italiano protezione o qualche forma di agevolazione in quanto proveniente da zone di guerra (o particolarmente complesse dal punto di vista della stabilità politica). Stando ai dati diffusi dal Viminale nell’ultimo anno lo status di rifugiato politico è stato ottenuto da 1601 migranti, poco più di un decimo di coloro che ne avevano fatto richiesta (mentre sono 2.765 coloro che hanno ricevuto una protezione sussidiaria di 3 anni, 2.812 le protezioni umanitarie di un anno e 3.890 le domande non accolte).

 

Le case popolari vanno solo agli immigrati – Questo è evidentemente un problema di natura complessa, che fa sempre grande presa sull’opinione pubblica. I dati sono molto disomogenei per città, provincia e Regione (si va da un 40% circa di case popolari assegnate a migranti in alcune zone della Lombardia al 10% dellaprovincia di Bologna) ed il discrimine andrebbe sostanzialmente rapportato alle domande: “A vedersi assegnare un alloggio, sono più spesso gli italiani rispetto agli stranieri, con il rapporto di 1 a 5 per le famiglie italiane e 1 a 10 fra gli stranieri che ne fanno richiesta”. Ovviamente scontata è la constatazione sull’impossibilità di assegnare case popolari agli irregolari, così come anche superflua dovrebbe essere la constatazione del fatto che la presenza in graduatoria di una più alta percentuale di stranieri ha anche una radice nella condizione reddituale degli stessi che mediamente è ancora più bassa rispetto a quella degli italiani.

 

L’Europa non ci aiuta – Fatte salve le valutazioni di ordine politico e la riflessione di ordine complessivo (che pure per certi versi è discutibile) sulla necessità di una risposta europea ai fenomeni di immigrazione, risulta non fondata l’obiezione relativa ad un completo disimpegno delle istituzioni europee dal punto di vista economico finanziario. Come spiega il ministero dell’Interno, infatti, è in piena attuazione il “Programma Generale Solidarietà e gestione dei flussi migratori”, che si sostanzia di 4 fondi:

• Fondo Europeo per i Rifugiati: riguarda le politiche e i sistemi dell’asilo degli Stati membri e promuove le migliori prassi in tale ambito. In linea con l’obiettivo del Programma dell’Aja di costituire un sistema di Asilo unico europeo, il fondo mira a finanziare progetti di capacity building creando situazioni di accoglienza durevoli per i beneficiari.

• Fondo Europeo per i Rimpatri: destinato a migliorare la gestione dei rimpatri in tutte le sue dimensioni sulla base del principio della gestione integrata dei rimpatri nonchè a sostenere le azioni volte ad agevolare il rimpatrio forzato.

• Fondo Europeo per l’Integrazione di cittadini di Paesi Terzi: finalizzato a co-finanziare azioni concrete a sostegno del processo di integrazione di cittadini di Paesi terzi, a sviluppare, attuare, sorvegliare e valutare tutte le strategie e le politiche in materia di integrazione dei cittadini di Pesi terzi, nonché a favorire lo scambio di informazioni e di migliori pratiche e a sostenere la cooperazione interna ed esterna allo Stato.

• Fondo Europeo per le Frontiere Esterne: finalizzato ad assicurare controlli alle frontiere esterne uniformi e di alta qualità favorendo un traffico transfrontaliero flessibile anche mediante il co-finanziamento o di azioni mirate, o di iniziative nazionali per la cooperazione tra Stati membri nel campo della politica dei visti, o di altre attività pre-frontiera.

Gli extracomunitari rubano il lavoro agli italiani – La risposta a questa specie di quesito non può che partire da una considerazione di carattere, per così dire, ideologico. Tutte le economie occidentali presentano una alta percentuale di lavoratori “non autoctoni” e, come ricorda Zatterin su La Stampa, “le cifre della Commissione Ue rivelano che il flusso migratorio non danneggia i sistemi sani, anzi. Nell’Unione europea, fra il 2004 e il 2009, si stima che il Pil delle quindici principali economiche continentali abbia beneficiato di un punto percentuale come risultato della migrazione”. C’è poi un’altra considerazione da fare e che è relativa alla questione “gli stranieri fanno i lavori che gli italiani non vogliono più fare” (una semplificazione davvero eccessiva) ed è quella relativa alla questione delle retribuzioni. Il salario medio di un lavoratore italiano è di 1304 euro, quello di un lavoratore straniero di 968 euro: evidentemente, dunque, c’è un discorso relativo alla specializzazione del lavoratore ed alla tipologia di lavoro, ma c’è anche una certa “tendenza” dei datori di lavoro ad approfittarsene.

Gli extracomunitari devono venire in Italia solo se hanno la sicurezza di un lavoro – A tale obiezione ha risposto in modo perfetto Sergio Briguglio su www.LaVoce.info , “suggerendo” alcune riforme possibili: “Si tratta di tradurre in norme quello che tutti sanno: i rapporti di lavoro a bassa qualificazione non si costituiscono “a distanza”, ma richiedono un incontro diretto, sul posto, tra domanda e offerta. Significa consentire l’ingresso per ricerca di lavoro, che è già possibile, senza alcun limite e senza conseguenze negative per la nostra società, per i lavoratori comunitari. Per i lavoratori di paesi terzi si potrebbero introdurre limiti numerici e, per far fronte a possibili fallimenti delle avventure migratorie individuali, opportuni correttivi in sede di rilascio del visto di ingresso: la registrazione delle impronte digitali e di una copia del passaporto, per una identificazione immediata dello straniero; e il deposito vincolato (da parte dell’interessato o di un garante) di un ammontare di risorse sufficienti al sostentamento del lavoratore per il periodo di ricerca di lavoro e per l’eventuale viaggio di ritorno“.

Bisogna aiutarli nei loro paesi di origine – In questo caso, più che di una scusante tutta politica che sottende ad un ragionamento inficiato da una buona dose di paternalismo, vi è una considerazione di ordine essenzialmente pratico. Se l’obiettivo finale deve essere quello del miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni che vivono in zone particolarmente disagiate, allora non può sfuggire che, come rileva la Banca Mondiale, “le rimesse inviate dai migranti nei paesi in via di sviluppo hanno raggiunto i 283 miliardi di dollari, una somma superiore a quella disponibile tramite l’aiuto pubblico allo sviluppo o gli investimenti esteri diretti”. Anche per questi motivi, tra i programmi maggiormente incidenti, vi sono quelli di co – sviluppo, ossia gli investimenti di residenti in Italia (e comunità d’accoglienza) nei loro paesi di origine (come il MIDA, Migration for Development in Africa, lanciato da Oim e Fao più di dieci anni fa). Il tutto senza considerare nemmeno il fatto che ogni “aiuto nei paesi di origine” non può prescindere da considerazioni specifiche sulle condizioni geopolitiche di alcune aree, strette tra tumulti, guerre e, soprattutto, dirimenti interessi stranieri (sui danni del neo-colonialismo e sulle convenienze “occidentali” poi la discussione si fa necessariamente lunga e molto complessa).

 


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