Dall’Ue le nuove regole per le espulsioni
by Redazione
Posted on Febbraio 3, 2011
Il 24 dicembre scorso sono scaduti i termini per il recepimento nel nostro ordinamento della direttiva 2008/115/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 16 dicembre 2008 recante norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare. Il provvedimento è, comunque, entrato in vigore nel nostro Paese, creando non pochi problemi per il mancato adeguamento della normativa italiana alle nuove disposizioni introdotte.
Sono, infatti, rilevanti le incompatibilità tra quanto disposto dalla c.d. direttiva rimpatri e quanto contenuto nel nostro Testo unico sull’immigrazione.
Obiettivo della direttiva – ribattezzata “direttiva della vergogna” in quanto contempla, tra l’altro, la possibilità di trattenimento ed espulsione per minori e famiglie – è quello di stabilire norme e procedure minime comuni sulle decisioni connesse al rimpatrio di cittadini stranieri irregolari all’interno dell’Unione europea.
Nel provvedimento si distingue «tra rimpatrio volontario» e «rimpatrio forzato», privilegiando la prima procedura rispetto alla seconda. Nel caso di rimpatrio volontario, si stabilisce per la partenza «un periodo congruo di durata compresa tra sette e trenta giorni» che può essere prorogato «tenendo conto delle circostanze specifiche del caso individuale, quali la durata del soggiorno, l’esistenza di bambini che frequentano la scuola e l’esistenza di altri legami familiari e sociali». Nell’ipotesi di pericolo per l’ordine pubblico, la pubblica sicurezza o la sicurezza nazionale o di mancato adempimento dell’obbligo di rimpatrio entro il periodo per la partenza volontaria, gli Stati membri adottano tutte le misure necessarie per eseguire la decisione di rimpatrio, potendo ricorrere – in ultima istanza – a misure coercitive. Inoltre, se non si ottempera all’ordine di rimpatrio o non si concede un termine per la partenza volontaria, le decisioni di rimpatrio sono corredate da un divieto d’ingresso la cui durata deve tener conto nello specifico della situazione del cittadino clandestino e di norma non dovrebbe superare i cinque anni. Solo se questi rappresenta una grave minaccia per l’ordine pubblico o la sicurezza nazionale, allora può esser previsto un divieto di reingresso superiore a cinque anni. Il trattenimento in un Centro può essere disposto solo in caso di fuga o se si ostacola la preparazione del rimpatrio.
Il Testo unico sull’immigrazione predispone un impianto normativo sul meccanismo delle espulsioni indubbiamente differente e per certi versi contrastante con i contenuti della direttiva comunitaria.
Il decreto legislativo 286/98, infatti, stabilisce l’accompagnamento immediato e coattivo alla frontiera come modalità ordinaria di espulsione. Qualora ciò non sia possibile, per indisponibilità del vettore o per accertamenti sull’identità, lo straniero viene trasferito in un Centro di identificazione ed espulsione, previa convalidata da parte di un giudice, in attesa dell’allontanamento. Una volta espulso, l’immigrato irregolare, non può far rientro in Italia prima di 10 anni e, se si trattiene ancora o rientra nel territorio italiano, è punito con la reclusione da 1 a 4 anni e con una nuova espulsione. Violando anche questo ordine, può essere nuovamente punito con la reclusione da 1 a 5 anni ed ancora espulso. Inoltre, a seguito delle novità introdotte dal c.d. Pacchetto sicurezza del 2009, lo straniero non regolare risponde del reato di ingresso o soggiorno illegale con un ammenda da 5 mila a 10 mila euro.
Sono, quindi, evidenti le incompatibilità tra la normativa europea e quella italiana, situazione che causa problemi e confusione nell’applicazione delle disposizioni da parte dei magistrati e giudici italiani, i quali, in base al principio del primato del diritto comunitario rispetto a quello nazionale, dovrebbe applicare la direttiva, ma a fronte di leggi interne che sono ancora tecnicamente in vigore nel nostro ordinamento. Lo stesso riferimento all’art. 2 della direttiva, secondo cui gli Stati possono decidere di non applicare il provvedimento comunitario nei confronti dei cittadini di Paesi terzi «sottoposti a rimpatrio come sanzione penale o come conseguenza di una sanzione penale», appellandosi al reato di immigrazione clandestina, non può essere la soluzione.
Si è cercato di ovviare a questo “caos legislativo” con una circolare del Ministero dell’Interno – Dipartimento della Pubblica Sicurezza del 17 dicembre 2010, in cui viene spiegato il quadro normativo della direttiva a cui occorre attenersi. Ovviamente ciò non è sufficiente e non può essere la sola strada de percorrere; la condizione giuridica dello straniero e i provvedimenti restrittivi della libertà personale non possono e non devono essere regolati da circolari e fonti normative diverse dalla legge, quindi diviene impellente e improcrastinabile una modifica normativa che conformi la disciplina italiana delle espulsioni a quella comunitaria.
Maria Carla Intrivici
3 febbraio 2010
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