Chiudere i campi Rom di Roma è una scelta possibile?
by Redazione
Posted on Marzo 14, 2017
Di Vincenzo Pira
Il campo Rom si farà. Il Comune di Roma ha confermato la procedura di gara per trovare un’area attrezzata sulla Tiberina, dopo che l’Anac di Raffaele Cantone aveva momentaneamente sospeso per avviare una procedura di monitoraggio. L’Anac, però, non ha ravvisato alcuna irregolarità e ha, quindi, confermato il bando che prevede l’insediamento d 120 famiglie rom, pari ad oltre 400 persone, che finora vivono nel Camping River, la cui chiusura è prevista per il 30 giugno prossimo. Nella determina dirigenziale del Comune del 7 marzo scorso si legge che: “La revoca o annullamento della gara comporterebbe le dimissioni dalla struttura privata ospitante, entro il termine ultimo del 30 giugno 2017, di circa n. 420 persone (di cui più della metà minori, come risulta dall’ultimo censimento realizzato dalla Polizia Locale nel gennaio – febbraio 2017), persone in condizioni di fragilità e senza alternativa abitativa, che si vedrebbero bruscamente private dell’alloggio e di forme di protezione sociale, con possibili ripercussioni sulla sicurezza pubblica”.
Da decenni sindaci, consiglieri comunali e municipali continuano a ripetere “Chiuderemo i campi Rom presenti nell’area di Roma Capitale…”. Ma alle parole non si è riusciti a definire un progetto che desse indicazioni del come farlo e in che tempi.
Se da decenni ciò non succede (a prescindere dal colore delle giunte che hanno governato la città) è solo cattiva volontà o scelte politiche sbagliate?
Quale è la direzione progettuale per chiudere quelle “isole di povertà e di esclusione sociale” che hanno più volte portato il Paese verso una procedura d’infrazione dalla Commissione Europea?
E’ ancora adeguata la scelta che l’attuale amministrazione sta confermando nel prorogare i campi esistenti in quanto non è stata predisposta (anche dalle precedenti amministrazioni) un’alternativa adeguata?
Ricordate quando il sindaco Gianni Alemanno, nel mese di aprile del 2008, in campagna elettorale, in una trasmissione televisiva, affermava: “Sgombero dei campi nomadi e 20mila espulsioni per coloro che hanno commesso reati o sono socialmente pericolosi”. Come sindaco ha dovuto affidare a un commissario di governo, il prefetto Giuseppe Pecoraro, la gestione di queste situazioni difficili che non si risolvono con slogan che cercano di appagare il malessere delle periferie romane. Di espulsioni non se ne parla e non spetta a un sindaco farle; le leggi e le procedure sono più complesse delle promesse per ottenere facili consensi.
La cronaca racconta dello spostamento di alcuni campi Rom ‘tollerati’ da anni: Via del Baiardo in zona Tor di Quinto (XV Municipio), Tor dei Cenci, Casilino 900, La Monachina, Della Martora e Foro Italico (II Municipio). Spostamenti che non hanno risolto il problema di inclusione sociale dei rom presenti nel territorio nazionale.
In Italia, si stima una presenza di circa 140.000 Rom, dato da intendersi come indicativo di una presenza tra le 110.000 e le 180.000 unità, corrispondenti allo 0.23% della popolazione totale. Tale dato risulta peraltro confermato dall’indagine condotta dalla Commissione straordinaria del Senato per la tutela e la promozione dei diritti umani. Nel 2016, secondo il Ministero del Lavoro erano presenti in Italia circa 130.000/150.000 Rom e Sinti, di cui all’incirca 70.000 italiani. A Roma le indagini fatte parlano di una presenza complessiva tra i 10 e 12 mila Rom.
Esiste un “Regolamento”, fatto dal prefetto Giuseppe Pecoraro, per la gestione dei villaggi attrezzati per le comunità Rom nella regione Lazio con l’obiettivo di disciplinare in modo univoco la gestione e le regole di condotta cui gli abitanti di questi campi che devono attenersi, se vogliono essere ammessi negli insediamenti autorizzati, che il Campidoglio deve gestire insieme a un Comitato consultivo di cui fanno parte, oltre ai rappresentanti del Comune, Asl, vigili del fuoco, polizia, carabinieri e un delegato rom. I requisiti per conquistare la ‘residenza’ nel villaggio, valida per due anni, bisogna ricevere l’autorizzazione del Dipartimento alle Politiche sociali, cui spetta il rilascio del permesso e l’assegnazione in uso delle piazzole di sosta per le roulotte, dei prefabbricati e dei servizi. Dopodiché, entro 30 giorni, si viene iscritti nei registri anagrafici della popolazione residente del Comune di Roma. Chi ha subìto una condanna definitiva o un periodo di detenzione superiore a due anni, non si presenti nemmeno: viene respinto. Quanto al resto, gli extracomunitari dovranno essere in possesso di un regolare permesso di soggiorno o titolo equipollente; gli italiani e i cittadini comunitari di un documento di identità valido. Chi non è in grado di esibire né l’uno né l’altro, deve dimostrare la permanenza in Italia da almeno dieci anni. Per entrare nei campi è obbligatorio farsi identificare. Perciò a tutti gli abitanti, bambini compresi, viene consegnata una tessera munita di fotografia e corredata dai dati anagrafici. Oltre ad aderire ai percorsi di formazione e integrazione elaborati dal Comune, i residenti nei campi devono seguire precise regole di condotta. Fra cui: divieto di ospitare persone non registrate o comunque non autorizzate; divieto di accendere fuochi fuori dalle aree appositamente attrezzate e comunque mai bruciare materiale inquinanti o pericolosi; divieto di accesso, parcheggio e transito di veicoli e motoveicoli; garantire l’uscita di parenti o visitatori occasionali entro le 22; pagare le bollette dell’acqua, della corrente e del gas, nonché il canone mensile per l’utilizzo della piazzola di sosta e per i rifiuti; usare solo elettrodomestici a norma. Pesante la sanzione per chi sgarra: l’espulsione dal campo entro 48 ore dalla revoca. In caso di rifiuto, il sindaco può chiedere l’intervento della forza pubblica.
Perde il diritto a vivere nel villaggio chi viola i doveri e le regole di condotta sopra elencati; abbandona la struttura assegnata all’interno del villaggio per un periodo superiore a tre mesi, salvo non sia stato espressamente consentito; rifiuta più volte l’inserimento lavorativo; viene condannato, con sentenza definitiva, a oltre 2 anni di carcere per reati contro il patrimonio o la persona; tiene comportamenti che creano grave turbamento alla sicura e civile convivenza. Al fine di promuovere corrette relazioni tra chi gestisce il campo e i rom, viene indetta l’elezione di un Comitato di rappresentanza degli abitanti: cinque membri che restano in carica un anno ed eleggono al suo interno un presidente. Presidio socio-educativo. Si occuperà di favorire i percorsi di integrazione e scolarizzazione, nonché l’assistenza socio-economica e culturale dei rom.
Quindi sono fuori luogo le accuse di mancanza di regole o che i campi siano terra di nessuno. Si verifichi se tali norme sono state rispettate e si sanzionino eventuali inadempienze. Con monitoraggio e valutazioni serie ed oggettive.
La richiesta, o promessa, di chiusura dei campi esistenti impone una valutazione su quanto si è fatto. Finora si sono valutati i singoli progetti assistenziali finalizzati appunto a garantire a queste comunità alloggio e sicurezza. Occorre superare le emergenze e favorire percorsi di inclusione sociale e comunitaria che, seppur non semplici, vanno realizzati al più presto.
La maggioranza dei rom e i Sinti che vivono a Roma non sono nomadi, ma stanziali (sebbene vittime di continui sgomberi) e aspirano ad una soluzione abitativa stabile. Ciò è dimostrato dalle centinaia di famiglie che sono in lista d’attesa nelle graduatorie per l’assegnazione di case popolari. Per giunta 5000 di loro vivono a Roma da più di trenta anni.
Utilizzare i finanziamenti per una diversa politica sociale che agisca sia verso i Rom, che devono essere orientati e accompagnati a utilizzare, rispettando le norme e le leggi, i servizi condivisi da tutta la comunità locale, uscendo dallo stile paternalista che li vuole tutelare ma che invece crea esclusione. Promuovere attività culturali, di informazione e comunicazione tese a smontare il mito che i rom siano stranieri, nomadi e che non vogliono convivere con altre etnie.
Smontare l’idea buonista che sono tutti vittime, ma non tollerare illegalità e atti delinquenziali ove presenti. Strutturare nel tempo attività di sostegno alla scolarizzazione, al dialogo interculturale, all’uscita graduale e protetta dai campi che accompagnino le famiglie rom al diritto alla casa, a trovare lavoro, a creare sostenibilità ed autonomia.
Nella Strategia Nazionale d’Inclusione dei Rom, Sinti e Camminanti viene affermato “il protagonismo positivo e la presa in carico dell’amministrazione pubblica” quale strada necessaria per traghettare le tante emergenze Rom verso il traguardo dell’inserimento nella società italiana ed anche quale strumento di consapevolezza e responsabilità civica, su cui fare leva contro il pregiudizio e la discriminazione.
Per riuscire a chiudere i campi/ghetto occorre che cambino non solo le politiche sociali, ma anche quelle urbanistiche ed educative individuando risposte complesse ed olistiche per problemi complessi.
Quindi prevedere una nuova strategia a medio termine (l’immediatismo che si nutre di slogan e di apparenza serve a poco) accettando la necessità che occorre tempo e che le scadenze non possono essere legate a quelle elettorali o dei sondaggi dell’opinione pubblica.
Occorre mettere in atto progetti diversi per le diverse situazioni delle comunità rom, non essendo adeguato affrontare tutta la problematica con soluzioni considerate valide per tutti i gruppi. Promuovere servizi per tutti, evitando la strategia di separazione e ghettizzazione che finora ha prevalso.
Forse allora il percorso da tanti auspicato può diventare progettualità politica e sogno che diventa realtà.
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