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“We ask our rights”, la protesta dei rifugiati

by Redazione

 

742 persone, provenienti dall’Eritrea, dalla Somalia, dall’Etiopia si sono messe in marcia ieri dal Centro di Castelnuovo di Porto fino al quartiere Prati di Roma, dove hanno chiesto il riconoscimento dello status di rifugiati, che dia loro la certezza di tornare ad esistere. Le cronache di oggi, pur con la cautela di un fatto che ha stupito tutti, danno conto di questa iniziativa che non è stata una protesta, non un corteo e non certo un sit-in, visto che si sono sciroppati oltre trenta chilometri sotto una canicola che avrebbe rimbecillito i marciatori delle olimpiadi.

 

I resoconti appaiono dunque striminziti, in certi casi balbettanti; sappiamo che quasi tutti i giornali sono stati avvertiti della marcia quando era già iniziata e ci hanno spedito in fretta e furia i redattori disponibili, magari della redazione sportiva o quelli esperti di vela e pesca da altura. Si prevede che già domani magari se ne saprà di più e, puntualmente, leggeremo il Manifesto che cercherà di mettere il cappello sulla marcia e le pagine romane de Il Giornale che adombreranno ipotesi di una macchinazione ordita da Fassino, per convincere Casini ad allearsi col PD contro Berlusconi alle prossime elezioni regionali abruzzesi.

Mentre aspettiamo domani, vorremmo dire alcune cose oggi: quella marcia di ieri era piena di dignità e lucida disperazione, voluta da gente che non conosce la lingua, non le nostre leggi, non i nostri centri sociali e nemmeno le opinioni del ministro La Russa sulla Repubblica di Salò, ma che pur avendo attraversato i deserti africani, riesce a stupirsi del deserto civile che ha trovato da noi: la Croce Rossa a distribuire acqua e qualche funzionario degli Interni a prendere impegni generici. Stop. Non le istituzioni, non la politica, non le organizzazioni sindacali. E, quel che ci brucia come una cancrena, non noi del terzo settore. Del resto non siamo preparati: i politici sanno occuparsi di strategie tattiche, di brunivespa, di scuole politiche estive; l’Unchr di diritti umani, ma vuole vedere il sangue, la gente che crepa di sete e di dissenteria; le associazioni umanitarie si infilano i fratini griffati solo se vedono pance gonfiate dai tumori, piorree alveolari, scabbie all’ultimo stadio, ma sui di diritti civili sono un pò arrugginite. Gente come noi, che si occupa di migranti, di poveri, di sofferenze del mondo, sa farlo con quella levità parrocchiale che non ci costringa mai a scegliere tra la vita e la morte del diritto, dei diritti, perché noi sappiamo che non per questa terra siamo fatti ma per un Regno che ci verrà preparato. Se su quelle t-shirt di ieri ci fosse stato scritto “pane e lavoro”, saremmo scesi in piazza, avremmo portato acqua, pane, coperte o ombrellini per il sole, ma che ne sappiamo noi di diritti civili? E’ roba da radicali…

Ecco perché la marcia di quel non popolo ha messo in evidenza che gli “invisibili” siamo noi, che non esiste un tempo per i diritti umani e uno per quelli civili e politici e che mettersi la mano in tasca ed una sul cuore spesso non basta. Ecco perché quel non popolo in marcia ricordava il popolo di Mosè e quello di Ghandi che ha cacciato gli inglesi. Il paragone non può avvenire sul piano delle proporzioni, ma su quello dei fatti sì. Gli egiziani con gli ebrei e gli inglesi con gli indiani, sapevano difendersi, reprimere e qualche volta premiare chi si vendeva loro, ma non sapevano rispondere all’aspirazione alla libertà perché essi stessi l’avevano dimenticata e dunque persero perché non seppero contrastarla.

Fabrizio Molina

(11 settembre 2008)

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