NOI, I RAGAZZI E LA LIBERTÀ RELIGIOSA
by Redazione
Posted on Febbraio 26, 2019
di Fabrizio Molina
«Il compito del moderno educatore non è di disboscare giungle ma di irrigare deserti» (C.S. Lewis)
Ci sono molte domande che hanno accompagnato tutti interi questi nostri vent’anni; per alcune ci sembra di aver trovato delle risposte, per altre no, per altre ancora siamo consapevoli, che aver trovato le risposte non ci mette al riparo dall’errore e dalla inadeguatezza.
Quando abbiamo iniziato ad occuparci di immigrazione, abbiamo subito scelto di lavorare sull’educazione dei minori, ritenendolo il terreno strategico di una nuova possibile civiltà: ragazzi figli di immigrati o coppie miste, come si diceva allora, che vivevano quella che per noi era una dimensione del tutto nuova; figli, per lo più, di giovanissimi genitori arrivati da molto lontano, con idee, cultura e fedi molto diverse dalle nostre. Erano gli anni 90 e non potevamo sapere che da quel momento la società non sarebbe mai stata più la stessa.
Alcune contraddizioni erano rese mano a mano più evidenti con l’aumento degli arrivi di cittadini stranieri e se qualcosa sfuggiva all’opinione pubblica ci pensavano i primi “artigiani della paura” a convincere le vecchiette che le loro figlie sarebbero state insidiate, che la loro pensione era in pericolo e pure il posto in ospedale non era più una certezza, per via dei musulmani che aumentavano. O a spiegare alle mamme italiane che i loro figli non avrebbero trovato lavoro per colpa degli immigrati. Erano i primi tangheri che scoprivano un nuovo business: spaventare le persone più fragili, più esposte, più a rischio esclusione. Ci si andavano costruendo partiti e gazzarre, su cui molti intravedevano lauti guadagni. Il tempo passava e le piccole bottegucce della paura e del luogo comune diventavano “imprese” vere e proprie, con tutto uno stuolo di operatori impegnati a dire che eravamo spacciati e poi tutto un coretto di partiti, studiosi, giornalisti, romanzieri. Ma in fondo bisognava metterlo in preventivo: i grandi cambiamenti spaventano, la paura fa vendere copie di giornali e cattiva politica. E poi c’è sempre un santone spicciativo, che ti promette che in fondo è facile risolvere i problemi: che si tratti del tumore sconfitto con le siringhe di acqua distillata o di un partito che propone di sparare ai migranti come fossero leprotti, c’è sempre qualcuno pronto a vendere pan di stelle ai disperati.
Noi in questi anni abbiamo cercato di batterci contro ogni luogo comune, non solo quelli dei nostri avversari, anche quelli della nostra parte, che opponeva alla paura folle alimentata ad arte, la proposta impossibile dell’“accogliamoli tutti”, una sociologia scervellata, che andava benissimo ai nostri avversari che tuonavano contro i buonisti alle vongole.
I ragazzi al centro delle contraddizioni
Soprattutto abbiamo costruito la nostra identità, guardando ai minori, ragazzi e adolescenti che, quelli sì, si trovavano a vivere contraddizioni crescenti tra lo stare in società e la vita in famiglia. Naturalmente le contraddizioni erano evidenti soprattutto lì dove la caratterizzazione socio-religiosa della famiglia era particolarmente forte, radicata e dunque distante da qualunque modello occidentale.
Abbiamo dovuto capire ed accettare che i nostri Centri diurni, nati da una felice intuizione del Comune di Roma nei primi anni 90, quei luoghi cioè dove incontravamo e incontriamo i ragazzi per farli socializzare, fossero solo dei terzi ambienti, che venivano dopo la famiglia e la scuola. E non dovevamo solo accettarlo, dovevamo vedere in ciò una risorsa, nella quale svolgere un ruolo propositivo e, potenzialmente evolutivo. Facile a dirsi, difficile è stato provare a realizzarlo.
Il nostro ruolo di educatori andava scoprendo piuttosto bruscamente, che quando ti occupi di un certo tipo di ragazzi, le contraddizioni permanenti non dividono il capo dei conservatori da quello dei democratici, ma attraversano in tutte le direzioni proprio il campo democratico. Ad esempio: in molte culture islamiche non esiste una propensione alla parità di genere sessuale. Ma è anche vero che per noi democratici, la parità rappresenta un valore non negoziabile. Allora che fare? Rispettare le differenti culture o considerare la parità di genere un valore assoluto? Sono entrambi valori democratici. Quale prevale? E ancora: in molta parte della cultura islamica, non c’è e non può esserci nessuna separatezza tra religione e cosa pubblica, ciò comporta che in molti paesi di provenienza dei migranti, le massime autorità statali siano anche e prima di tutto, autorità religiose o loro emanazioni. Mentre per l’occidente, dalla Rivoluzione Francese al Risorgimento, milioni di persone sono morte per l’obiettivo di una libera Chiesa in libero Stato. Rispetto delle differenze culturali e separatezza Chiesa Stato, sono altri due valori democratici…quale prevale? E queste sono questioni in cui inciampi ogni giorno, se fai l’educatore.
Le fedi e la laicità
E poi, siamo rapidamente incappati nella madre di tutte le questioni: come si fa, da cattolici, educazione con ragazzi prevalentemente islamici? Noi operatori, sia quelli più vecchi che quelli più giovani, eravamo cresciuti tra scuole dove, anche se laiche, c’era l’ora di religione cattolica e il triduo pasquale e poi l’oratorio e i boys scout. Il presepe, la quaresima, le suore nere dei pomeriggi al catechismo, e l’Azione Cattolica. Valori a cui molti tra noi credono ancora e fortemente. Alcuni magari senza fede, ma raramente credenti in altro che non sia il Gesù di Nazareth. Ci ripetevamo, allora come oggi, che i nostri Centri erano e sono del Comune o della Provincia, del Ministero dell’Interno, della Regione, quindi che la nostra funzione era ed è deontologicamente laica e lontana da una religione, da una politica, da un modo solo di vedere i rapporti umani. Ma basta questo? E, soprattutto, è possibile spogliarsi di ciò che si è per imparare a rapportarsi con altro da sé ed imparare a farlo senza sapere per davvero come si fa?
Ancora oggi a tutte queste domande non sappiamo, non so, rispondere, ma so quello che abbiamo fatto, come lo abbiamo fatto, traguardando un orizzonte non sempre netto e chiaro di fronte a noi.
Il sapere libera
Per forza di cose siamo partiti da ciò che credevamo e crediamo giusto. Aiutarli a scrivere a leggere a pensare nella lingua del Paese, che non loro, ma i loro genitori hanno scelto, ci è sempre sembrato il primo passo. Imparare a leggere, scrivere e capire è il primo passo per essere liberi. Libertà e autodeterminazione sono due beni e noi arbitrariamente li abbiamo messi alla base di qualunque nostra idea o proposta. Non abbiamo mai fatto nulla, che servisse a far somigliare quei ragazzi a ciò che noi crediamo debbano essere una donna e un uomo. Abbiamo sempre lavorato perché loro trovassero nel fondo di una loro cultura sempre più plurale, l’essenza di ciò che un giorno sarebbero voluti essere.
Mentre con loro seguivamo questo cammino, abbiamo parlato con le scuole e con le loro famiglie, a volte le abbiamo convinte, altre no. E dove abbiamo trovato il duro, ci siamo armati di santa pazienza: le ragazze e i ragazzi affidatici non sono cavie utili a dimostrare le nostre idee astratte; abbiamo sempre tenuto presente che noi siamo con loro qualche ora al giorno per qualche giorno alla settimana, se va bene per qualche anno. Le loro famiglie sono l’unico appiglio in un mare spesso in tempesta. Non dobbiamo aprire voragini, ma suturare ferite e suturando provare ad aumentare le scelte a loro disposizione.
La fede di molti di noi non poteva restare un fatto privato, ma non poteva in alcun modo diventare ostacolo, muro, voragine. Approcciando quei ragazzi dovevamo provare a capire non quale fosse il massimo comun divisore ma il minimo comune multiplo; serviva riconoscere loro, le loro famiglie, le loro storie, Mangiare il loro cibo non come una stucchevole sciccheria buonista, perché ciò che dovevamo mangiare davvero era il pane spezzato e condiviso, pensando prima di tutto a convertire i nostri cuori. Non a convertire loro.
La testimonianza muta
Sono stati anni di continui ossimori, contraddizioni, tumulti interiori. Ma molti di noi hanno rafforzato la propria fede non in un apostolato missionario arbitrario e indebito, ma nella muta testimonianza, nel chiedere di essere accolti cominciando, per primi, ad accogliere. Confidando nel perdono di quei ragazzi e delle loro famiglie per tutte le volte che non siamo riusciti ad essere migliori.
È bastato fare tutto questo? Anche a questa domanda non saprei rispondere. Quello che so è che abbiamo cercato di dare il meglio, tracciando strade che prima non c’erano e che comunque noi non conoscevamo. E quanti come noi hanno cercato di aprire nuove strade, sanno che quelle strade, come ogni strada, avranno momenti di gloria e di declino, si copriranno di erbacce e di rovi ma non saranno mai per davvero dimenticate.
La nostra cocciuta speranza è sempre stata quella di tenere insieme le diversità e spesso le contraddizioni. Talora l’impossibile.
Siamo stati accusati per questo, di coltivare l’utopia. A volte addirittura di sincretismo religioso. Una accusa questa sciocca e violenta che, personalmente ad esempio, mi ha scioccato ed addolorato. Quasi che nel tentativo di non fare di Dio la clava per colpire l’avversario, si rinunciasse vigliaccamente ad affermare il Dio in cui si crede. Quello che credo è che non ci sia un Dio degno di fede e amore che possa pretendere l’emarginazione o addirittura il sangue di chi non lo venera. Tutte le religioni più grandi hanno conosciuto l’arbitrio e la spada; ci sono voluti secoli di vergogna per dimenticare le colpe di chi ha ucciso nel nome del medesimo Dio.
Quella di perseguire l’utopia non è invece per noi una critica insensata. Né sgradita. Se utopia è il termine che usiamo per definire ciò che non siamo stati ancora in grado di essere e di fare, lo possiamo accettare. Abbiamo teso ad un obiettivo senza avere nessuna certezza di centrarlo. Il fatto è che continueremo a perseguirlo, perché non ce n’è un altro che meriti lo stesso impegno, la stessa passione e che dia alla vita lo stesso prorompente senso.
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