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Un dolore privato di rilevanza pubblica

by Redazione

Il ricordo commosso di Riccardo Della Rocca

In diciassette anni è la prima volta che uso uno spazio associativo (dunque pubblico), per ragioni private. E lo faccio con piena consapevolezza. Mi hanno appena informato della morte di Riccardo della Rocca e la prima sensazione che provo, insieme ad un forte dolore, è quella di non essere solo. Un senso di comunità, fatto di vecchi scout del Masci, di dolci reduci dei Cristiano Sociali, pochi e sparuti galantuomini di un tempo che non tornerà, di pochi ingegneri democratici come lui, degli appartenenti di una stagione politica troppo breve che lo vide protagonista, di quelli che come me vedevano nella sua faccia segnata e disegnata da una barba che sembrava l’emblema di un’altra stagione mai come oggi rimpianta.

Il primo ricordo che ho di Riccardo è di quarant’anni fa: ero con gli scout a Forino, in Irpinia, eravamo lì per dare una mano ai terremotati ma forse davamo solo impiccio ai soccorritori, quelli veri. Pensavamo di essere lì per aiutare ma erano quelle persone ad aiutare noi.

Lui era un super capo dell’Agesci e venne in ispezione con Romano Forleo, altro pezzo da novanta di quegli anni di pantaloni corti e fazzolettoni. Tanto Forleo sembrava essere giunto in visita direttamente da qualche cerchio celeste, tanto Riccardo era sempre ben piantato a terra. Volevo già allora molto bene a entrambi, ciò non toglie che raramente ho conosciuto persone più diverse. E questo non credo sia un male.

Riccardo ci chiese come andava, ci parlò di Mazzolari e don Milani, ma il meglio lo diede quando uno degli abitanti del posto, un pezzo di marcantonio di quasi due metri e di non oltre trent’anni, venne a chiedermi se potevo fissargli al muro esterno di casa sua – visto che ero lì – il filo per i panni da stendere.

Io già stavo per andare quando Riccardo mi bloccò e guardandolo con quel suo viso che sapeva essere duro gli disse che noi eravamo servitori non servi e il filo se lo doveva fissare al muro da solo. L’ho ringraziato mille volte di quella lezione e lui rideva, con quel suo timbro vocale che sembrava una caverna sporca come la voce di Ligabue e che pure conservava tracce acute e ingenue di un ragazzo.

Del resto se, vecchi come siamo, non ci vergogniamo dei calzoni corti e della nostra riserva di speranza, un che di meravigliosamente malato in noi ci deve essere. C’è in noi, come c’era in Riccardo, che Dio lo benedica per questo!

Fabrizio Molina


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