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I numeri della crisi, le proposte per tentare di uscirne

by Redazione

Un prezioso contributo: le riflessioni sul documento di NeLL “Dalla crisi l’occasione per rinnovarsi”

di Nicola Cacace

Condividendo totalmente l’approccio e le finalità del documento di NeLL e mi permetto di sottolineare alcuni aspetti di carattere socio-economico che potrebbero rafforzarlo.

Le diversità e le differenze sono ricchezze culturali ed economiche.

Nella società globalizzata e della conoscenza il possesso di altre culture, acquisibile viaggiando o vivendo a contatto con stranieri è un valore aggiunto economico oltre che culturale. L’esempio degli U.S.A è significativo: tra tante contraddizioni e contrasti anche razzistici, quel paese dove il mix delle razze è massimo, è diventato il più ricco tra i grandi paesi del mondo. Il Brasile è un altro esempio di paese fortemente multietnico attualmente in forte sviluppo pur partendo da basi di povertà diffusa.

La questione sociale è anche questione economica.

Nella società della conoscenza, dove il fattore umano è più importante del fattore capitale (il secondo è libero di spostarsi dovunque nel mondo dove trova business opportunity, il primo è prevalentemente territoriale), solo una forza lavoro assistita da un welfare universale e protetta da un sistema di diritti è in grado di produrre le innovazioni in quantità e qualità tali da mantenere competitivo un paese industriale.

L’eguaglianza sociale è anche fattore di sviluppo economico.

L’eguaglianza sociale, da sempre considerata fattore di vera democrazia (art. 3 della Costituzione, dove la Repubblica deve garantire l’eguaglianza delle condizioni di partenza dei cittadini), con la globalizzazione e l’avvento della società della conoscenza si è rivelata fattore primario di sviluppo economico. È una realtà poco nota perché occultata dalla cultura neo-capitalista prevalente, ma ormai supportata dall’evidenza empirica. In Europa gli 8 paesi a più alto sviluppo ed a più bassa disoccupazione sono gli 8 paesi a minor diseguaglianza sociale. Germania, Austria, Francia, Olanda, Danimarca, Svezia, Norvegia e Finlandia hanno tutti l’indice di Gini, la misura della diseguaglianza sociale, inferiore a 0,3, cioè sono i paesi dove le differenze di redditi e ricchezze tra cittadini sono le più ridotte.

I flussi migratori mondiali sono un fenomeno strutturale in crescita.

Con lo sviluppo della globalizzazione (merci e capitali si muovono nel mondo senza barriere doganali o politiche) e come fattore di accelerazione della globalizzazione, va ricordata quella che una famosa copertina dell’Economist (il più importante settimanale di economia del mondo) chiamò, The death of the distance, “la “morte della distanza”. Grazie al progresso tecnologico, elettronica, container, etc., il costo di trasporto sia dei bit, le informazioni, che delle molecole, cioè le merci, si è ridotto di molte volte. Contemporaneamente si è molto ridotto anche il costo trasporto passeggeri e di questo si è giovato sia il turismo internazionale, settore economico a più alta crescita dal dopoguerra, sia le migrazioni. Nel 2012 le migrazioni mondiali sono state di 320 milioni, il 3,5% della popolazione e sono previste in 400 milioni nel 2020. Il forte aumento dei flussi internazionali, per turismo o per cambiare vita, sono considerati dagli esperti un fenomeno strutturale e non congiunturale.

Ide, investimenti diretti esteri, altro fenomeno in forte aumento.

Con la globalizzazione in 10 anni gli Ide sono raddoppiati nel mondo crescendo di 3 volte nei paesi emergenti e solo del 50% nei paesi industriali. Poiché da anni la natalità dei paesi industriali è scesa sotto il livello di equilibrio di 2 figli per donna, un altro portato della globalizzazione è stato che i paesi industriali diventano sempre più vecchi, a bassa crescita e gli emergenti sempre più giovani e ad alta crescita. Gli Ide non calano solo in Italia dove nel 2012 sono stati appena lo 0,4% del Pil, ma anche in Germania, 0,2% del Pil ed in Giappone, 0% del Pil, paesi che hanno in comune con noi la bassa natalità, la vecchiaia della popolazione e la bassa crescita del Pil. Di contro paesi europei ad alta natalità, Olanda, Francia, Svezia, attirano Ide molto più di altri paesi europei.

In Italia la nascite sono al minimo mondiale.

In Italia le nascite nel 2013 sono diminuite per il quinto anno consecutivo, attestandosi a 514mila, dopo il secco dimezzamento degli anni settanta, quando da 1 milione scesero a mezzo milione. Con questa bassa natalità, i demografi avvertono che il paese tocca il punto di non ritorno. Che significa? Come è successo spesso in passato, grandi città in crisi sono passate da milioni di abitanti a poche migliaia, come Roma tra l’anno zero ed il medio evo. L’immigrazione diventa necessaria per non chiudere fabbriche, campi, famiglie e sistema pensionistico, ma non risolve tutto. Il massiccio afflusso di immigrati in Italia, oltre ad alimentare derive xenofobe per la velocità con cui avviene, non risolve il problema dell’invecchiamento poiché gradualmente le straniere si adeguano alla bassa natalità italiana, tra 2008 e 2013 essa scesa da 2,7 figli per donna a 2,2 (italiane da 1,34 a 1,27). Il problema della denatalità non è solo demografico, è anche economico. Gli industriali investono nei paesi giovani per un duplice motivo, le prospettive di alta crescita della domanda e la disponibilità di un’offerta di lavoro giovane ed abbondante. Questo trend è seguito anche dai nostri industriali, che negli ultimi 5 anni hanno investito all’estero 4 volte di più di quanto gli stranieri abbiano investito in Italia, 40 miliardi di dollari l’anno di Ide-out contro 10 di Ide-in. Per uscire dall’inferno della denatalità occorre anzitutto creare occupazione non precaria per i giovani, tale da consentire loro uno straccio di progetto futuro ed alla luce dei tassi previsti di crescita del Pil, intorno od inferiori all’1%, quest’obiettivo non può essere raggiunto senza una redistribuzione del lavoro come fatto in Germania, che ha aumentato l’occupazione dal 1990 al 2010 riducendo le ore lavorate da 60 a 58 miliardi. Poi ci vogliono detrazioni fiscali per i figli, non ridicole, come in Italia, ma consistenti come in Francia, Svezia, Olanda (costo 15 miliardi), terzo bisogna aumentare i servizi per l’infanzia ed attivare una migliore conciliazione casa-lavoro, con contratti part time incentivati a quante donne lo richiedano.


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