Immigrazione: il lavoro è stato l’unico vero fattore di integrazione. Ma ora?
by Redazione
Posted on Giugno 4, 2014
Dal sito Corriere delle immigrazioni pubblichiamo questa intervista a Ferruccio Pastore, vice direttore del Cespi (Centro Studi di Politica Internazionale) realizzata da Stefano Galieni e pubblicata il 30 maggio 2014 con il titolo “Gli stranieri e il lavoro che non c’è”
Pastore si occupa da almeno due decenni di immigrazione, vanta un elenco vastissimo di pubblicazioni e di collaborazioni, ha seguito buona parte dei processi con cui l’Italia si è confrontata con questo cambiamento strutturale. Da presidente del Cespi ha soprattutto affrontato molte questioni riguardanti le tematiche del lavoro. Gli abbiamo chiesto quanto sia cambiato, negli anni, il mercato del lavoro per le donne e gli uomini migranti.
«Troppo poco a mio avviso. Le nicchie economiche che venivano occupate nei primi tempi si sono in parte allargate ma senza produrre reali trasformazioni. I ruoli svolti restano per molti gli stessi. C’è una sorta di soffitto di vetro che blocca la mobilità sociale, come accade – in forme diverse – per altre categorie, vedi i giovani e le donne. L’unica reale novità è intervenuta quando si sono aperti spazi per il lavoro autonomo. Sono venute meno delle clausole di reciprocità fra Stati che di fatto erano barriere insormontabili. Ora, con i recenti provvedimenti di apertura nel pubblico impiego, qualcosa potrebbe cambiare, ma è ancora troppo poco».
Qual è la ragione di questo immobilismo?
«Partirei da un elemento su cui ha molto riflettuto l’economista Claudia Villosio. L’Italia è l’unico Paese in cui crescita economica ed immigrazione non hanno seguito lo stesso trend. Negli altri andava di pari passo, da noi sono stati fenomeni separati. Da una parte una crescita che stagnava già da una parte degli anni Novanta fino ai primi del Duemila, prima insomma della crisi conclamata. Contemporaneamente l’immigrazione cresceva in maniera esponenziale, come in nessun altro Paese europeo. Una crescita che è risultata come una determinante più in senso demografico che economico. Una sorta di controtendenza che però è dovuta a cause precise».
Quali?
«Da noi, in mancanza di una offerta autoctona per alcuni settori occupazionali, si è determinata quella che chiamo un’immigrazione low cost. Gli immigrati sono a basso costo per gli imprenditori che, con questa manodopera, restano sul mercato invece di investire in innovazione tecnologica. Per alcuni la presenza degli immigrati ha rappresentato un’alternativa alla delocalizzazione. Il picco del low cost si vede nell’agricoltura. Lo Stato ha precise responsabilità da questo punto di vista: non ha mai fatto investimenti per favorire un’immigrazione legale, ma ha soltanto attuato politiche di regolarizzazione che non costavano, dai decreti flussi alle sanatorie, e non incidevano sul welfare. L’alto tasso di attività tenuto fino all’esplodere della crisi ha determinato che l’immigrazione rappresentasse un fattore attivo e non passivo. E di fatto la domanda di immigrati è aumentata, in assenza di crescita, senza determinare reali tensioni sociali. Ma ora la torta si sta rimpicciolendo, e crescono le porzioni ad appannaggio degli immigrati: ecco allora che la situazione potrebbe davvero cambiare, e in senso problematico. Anche perché, nonostante le politiche securitarie, negli anni si è determinata una stabilizzazione giuridica su vastissima scala. Oltre la metà dei migranti ha la carta da lungo soggiornanti».
La crisi ha cambiato le carte in tavola
«Sì, rischia di far saltare tutto. Sono cresciute le famiglie di persone provenienti da altri Paesi e la quota di immigrazione, che inizialmente non era produttiva, ora cresce. Ma crescono anche i bisogni sociali come la scuola e la sanità, servizi che la crisi va erodendo. Ci sono segnali di competizione fra nativi e immigrati. I dati sono ancora fluidi ma ad esempio, nei centri per l’impiego, ci sono donne italiane che tornano a fare domanda per corsi di formazione relativi al lavoro di cura della persona e di collaborazione familiare. La loro offerta è diversa da quella delle donne migranti, evitano i contratti che prevedono la residenzialità presso l’assistito, vorrebbero svolgere questo lavoro come elemento di integrazione al reddito, non full time e non come scelta definitiva. Quindi non sono totalmente concorrenziali alle immigrate. Poi con la crisi ci sono stati tagli ai già scarsi fondi per le politiche di integrazione e questo allarga ulteriormente il divario. C’è chi teme anche il peso dei migranti sul welfare, ma questi costi non sono rapidi e non li vedo come dirompenti. Ma la crisi si nota anche prendendo i dati dell’ultimo dossier Idos. L’immigrazione non è calata ma, a fronte di tanti permessi per motivi di lavoro che scadono, crescono i permessi per motivi famigliari. Quelli per lavoro sono più difficili da rinnovare».
Quindi chi perde lavoro torna nei Paesi di provenienza?
«Succedono tante cose di cui sappiamo poco. Ci sono ritorni, ci sono persone che, avendo la possibilità, se ne vanno in altri paesi. Se sono irregolari non li vediamo, se sono lungo soggiornanti non li possiamo seguire a meno che non spostino la residenza. Sappiamo che l’immigrazione è stratificata per classe e che pesa molto il territorio in cui ci si insedia. Ad esempio molti cittadini marocchini, residenti a Torino o nella cintura industriale e manifatturiera, stanno scomparendo. Non sappiamo se sono andati in Francia o tornati in Marocco, ma sappiamo che questa è la comunità che sta pagando di più la crisi a causa di diversi fattori. Hanno spesso un minore capitale umano da mettere sul mercato, un più basso livello formativo, subiscono forti discriminazioni. L’industria manifatturiera è colpita molto duramente e loro sono i primi a pagarne le conseguenze. Non abbiamo notizie certe neanche dal versante marocchino. Nella scorsa estate è stato elaborato un questionario per la Banca Mondiale, con il progetto Greenback. Fra i segnali emersi, il fatto assurdo che, per almeno il 20% dei marocchini che hanno risposto, le rimesse avvengono al contrario. Sono gli immigrati che ricevono aiuti dalle famiglie rimaste in patria, per poter continuare il proprio progetto migratorio. Si contraddice insomma la ragione stessa della migrazione. In sintesi, dico che la crisi sta producendo un elemento di deintegrazione di alcune fasce, ma non su tutti i piani. Si sta magari male economicamente, ma ci si sente inclusi dal punto di vista sociale, linguistico, persino giuridico».
Ma il lavoro resta il principale fattore di integrazione?
«Sì, anche se non bisogna farci ingannare dai parametri generali. La situazione di crisi ha creato fattori che definirei controciclici. Da noi l’immigrazione per lavoro si è stabilizzata, mentre sta crescendo molto in Germania ad esempio. In alcuni comparti poi, come quello del lavoro di cura, effettuato principalmente da donne, si avvertono meno i contraccolpi in termini occupazionali ma peggiora la condizione economica, calano i redditi e si estende il passaggio al nero. Più in generale c’è un peggioramento nelle condizioni di lavoro e un disinvestimento nella sicurezza. Comunque è vero che il lavoro è stato l’unico vero fattore di integrazione. Certo se cominciano a sorgere dei problemi di carattere materiale, se il collega straniero con cui condividevi la fatica, ti diventa concorrente, rischia di cambiare la percezione».
Ma nel frattempo sono entrati in ballo anche altri fattori
«Ci sono anche processi culturali che sono stati più fluttuanti e hanno generato dinamiche strane. Le minoranze hanno cercato e cercano di ambientarsi e di legittimarsi in un processo che è lento ma difficile da arrestare. Molti che risiedono qui da tanto tempo, si sentono di appartenere a questo paese, ma la stessa società di accoglienza diviene a volte volatile. Ci si trova all’improvviso respinti sulla base del sorgere delle difficoltà materiali. Sono queste, a mio avviso, a pesare. Se si pensa che a pagare la crisi sono oggi, più dei migranti, i giovani sotto i 24 anni, totalmente esclusi da prospettive di inserimento. I processi di integrazione rischiano di saltare. Vale per il lavoro ma vale anche per la sofferenza abitativa. Anche in tale ambito i giovani ne risentono di più e questo può creare tensioni».
Un lavoro che da una parte “integra” e contemporaneamente determina scarsa mobilità sociale. Come se ne esce?
«Il modello italiano dipende molto da strumentalizzazioni. Un sistema virtuoso è stato reso impossibile, quello che si è avuto era quello che era praticabile e ora non è sufficiente la volontà politica per modificarlo. Io vedo due possibilità. La prima è che i lavori considerati infimi, faticosi e poco pagati si emancipino. Non solo con miglioramenti salariali ma anche come status. Faccio un esempio: tutti i Paesi europei hanno problemi di invecchiamento. Il lavoro di cura diventa fondamentale. In Francia, con tanti problemi, questo lavoro è stato salvato da un deprezzamento sociale e culturale. E questo paga. Contemporaneamente, bisognerebbe investire in formazione e innovazione, anche tecnologica. Permettendo ad ogni cittadino di migliorare le proprie competenze e quindi le proprie aspirazioni professionali. Altrimenti c’è un’altra soluzione che non auspico».
Quale?
«Quella che si va imponendo in Olanda e in Inghilterra, dove nel mercato del lavoro si sono introdotti al massimo competizione e flessibilità. Il risultato è che la segmentazione del lavoro avviene meno su base etnica e che ci sono molti lavoratori “bianchi” che se poco intraprendenti o poco scolarizzati finiscono a fare i lavori che un tempo facevano solo i migranti. Questo crea tensioni profonde, non a caso partiti come il British National Party si afferma soprattutto fra questi segmenti di lavoratori autoctoni. Ma se questo modello crea tensioni è d’altra parte difficile che, in un periodo di crisi, un Paese decida di imboccare la prima strada e riqualificare l’intero modello di sviluppo. Ha costi alti e non sarebbe indolore. Sarebbe facile quando l’economia tira e allora di investimenti se ne produrrebbero, ma oggi, ad esempio in Italia, chi ha gli strumenti e la capacità di riqualificare, modernizzandola, l’agricoltura nel Meridione? Sarebbe salutare e con gli anni porterebbe effetti benefici all’intero sistema. Ma nessuno è in grado di farlo».
Lascia un commento